Occorrono circa due ore e mezza da Samarcanda per raggiungere Shahrisabz e poi un’altra ora circa per raggiungere il sito del mausoleo del villaggio di Langar Ota. Questi corrugamenti montagnosi e poi queste lunghe piane che corrono verso le colline del Tajikistan sono l’’immagine perfetta della scenografia entro la quale si svolgevano le epiche scorrerie a cavallo di un Tamerlano molto giovane. Tamerlano è figlio di due culture: il nomadismo e la sedentarietà. Il sangue mongolo di lontano retaggio, l’irrefrenabile spirito delle cavalcate senza limiti, si era mescolato all’istintivo calcolo matematico dello spazio insito nella mentalità della cultura sedentaria. La carismatica ascendenza di un sufi islamico si era sovrapposta, in una visione nebulosa, alla figura primordiale dello sciamano delle steppe.
Il villaggio di Kesh, dove nacque l’emiro si trovava poco a sud dell’attuale Shahrisabz, il luogo che egli prescelse per la sepoltura di suo figlio Jahangyr e per la costruzione del suo palazzo monumentale: un edificio enorme dai cui resti oggi si può immaginare una struttura impressionante che, oltre ogni ragionevole grandezza, era la proiezione dell’insanabile egocentrismo dell’emiro.
Il piccolo villaggio di Langar Ota è una entità contadina molto curiosa. È l’unica vera possibilità che si abbia durante il viaggio in Uzbekistan di avvicinarsi ad una realtà semplice, popolare. Quasi tutti i viaggi in questo Paese, ricchissimo di opere monumentali, ignorano l’aspetto della vita quotidiana. In realtà in quel mondo antico dell’Asia Centrale non c’era spazio per alcuna forma di espressione popolare importante.
Nulla rimane dell’architettura popolare antica. Il villaggio di Langar Ota, essendo ai piedi di una tomba sacra ha in qualche modo mantenuto una certa identità ed è verso tale ambito che indirizziamo una parte della visita quotidiana: la moschea antica del villaggio e il mausoleo sulla collina
antistante saranno i due fulcri di questa visita.
Testo di Giovanni Dardanelli